IL REGNO DEL NORD – MARCO REVELLI

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Dunque il Piemonte è stato annesso al lombardo-veneto. Alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità d’Italia ha rovesciato il segno simbolico del proprio ruolo storico, come se la Seconda Guerra d’indipendenza fosse stata perduta. Come se a Solferino e San Martino avessero vinto gli altri. E infatti, appena finito di contare i voti, Zaia e Cota, all’unisono, si affrettano a proclamare la propria alleanza col Papa Re dall’accento asburgico, passando sul corpo delle donne e sul testo di una legge della Repubblica.

Non c’è dubbio che è questo il dato centrale delle elezioni. Il fatto che, con buona pace di Pier Luigi Bersani, dà per intero la misura della sconfitta del centro-sinistra: la “caduta” del Piemonte. Perché con essa la Lega, occupando con uomini propri tanto il Nord est che il Nord-ovest e aumentando il proprio già forte peso in Lombardia, unifica sotto le proprie bandiere pressoché tutto il Nord. “Governa”, di fatto, la Padania. Può dire – e di fatto così è – di non aver guadagnato solo due amministrazioni regionali della Repubblica, ma di aver conquistato “un regno”: il più “pesante” della penisola. D’ora in poi la geografia politica italiana non sarà più la stessa.
Il secondo fatto cruciale per leggere quanto è accaduto, è che Berlusconi non ha perso. E quindi, date le circostanze, ha stravinto. Più nulla, ma proprio nulla, di ciò che è e di ciò che fa, era sconosciuto. Tutti i suoi vizi, quelli privati come quelli pubblici, erano noti. Scritti nelle carte dei giudici e sulle prime pagine dei giornali. E tuttavia non solo non è crollato, come sarebbe stato naturale aspettarsi, ma ha finito per prevalere. Il suo “racconto” – sempre più narrazione di se stesso – ha continuato a rimanere il racconto prevalente. L’autentica “autobiografia della nazione”. Ognuno di quei vizi e di quei fatti, sarebbe bastato da solo, in qualsiasi altro paese normale, a segnare la fine di qualsiasi uomo politico. Sicuramente di qualsiasi Capo di stato. Qui no. E ora, nel lavacro elettorale, quei vizi e quei fatti, diventano “norma” perché come si sa – come gli anni Venti e Trenta dell’altro secolo ci hanno insegnato – l’illegalità impunita e la perversione accettata a furor di popolo si trasformano in legittimazione. Non solo l’inaccettabile viene accettato, ma diviene forma del senso comune prevalente. E attributo della sovranità.
Certo – si dirà – Berlusconi ha portato a casa la pelle, ma ha perso il partito. Ed è così. Nella sua lotta per la sopravvivenza ha messo in campo solo ed esclusivamente la propria persona. Anzi: la propria faccia. Il suo Sé abnorme. Quello che ha chiesto – e purtroppo ha ottenuto – è un plebiscito su se stesso. Ma ha rivelato anche il vuoto politico che ha intorno a sé, tra le proprie mura. Molti – davvero tantissimi – servi; pochi, quasi nessun politico. Il Pdl, più che un partito, si è rivelato una corte, da una parte; e un coacervo di interessi e di spezzoni d’identità dall’altra. Alla prova del voto quello che nelle intenzioni avrebbe dovuto diventare il partito egemonico della destra, è imploso miseramente. 
Il Pdl ha rivelato la propria inconsistenza organizzativa (fino al limite dell’incapacità di realizzare le operazioni più banali per un partito come la presentazione della lista). E la propria inoperosità identitaria e politica, tanto viscosa da aver neutralizzato persino l’identità forte di quello che era rimasto finora un vero partito, cioè An. 
Esattamente come il Pd, inerte nel gioco incrociato dei notabilati interni e delle trascorse storie personali e collettive, incapace di mobilitare passioni e di nobilitare interessi. Soprattutto esangue, privo di una propria corporeità sociale, di un proprio popolo, di una propria gente in nome della quale parlare e dalla quale essere riconosciuto. Prigioniero dell’era del vuoto che con la propria genesi ha inaugurato.
Ed è questo il terzo dato qualificante: il fallimento dell’operazione avviata nell’estate-autunno del 2007, con il proclama del predellino, da una parte, e con la kermesse mediatico-plebiscitaria veltroniana in preparazione delle primarie del non ancor nato Pd, dall’altra. Essa aveva, esplicitamente, l’obiettivo di ridisegnare l’architettura del sistema politico e istituzionale italiano intorno alla centralità di un bipolarismo ad alta vocazione egemonica. Di superare l’impasse in cui si era arenata la cosiddetta seconda Repubblica con una radicale semplificazione del sistema dei partiti intorno al doppio polo Pdl-Pd. Due entità – è bene ricordarlo -, che si auto-dichiaravano nuove, in corso di stampa si potrebbe dire. E che – nell’enfasi della retorica nuovista – si presentavano come un inedito. A quelle due incognite era affidato – in modo del tutto irresponsabile – il compito improbo di ritracciare in forma costituente il profilo del nostro assetto istituzionale, secondo la logica di una partita di poker in cui la posta era giocata “al buio”. 
Oggi sappiamo che quelle due entità che avrebbero dovuto diventare partiti, in realtà non sono mai arrivate. Che la produzione liofilizzata del Pdl e la fusione fredda del Pd si sono in qualche modo fermate a metà, lasciando in campo due ectoplasmi incerti sulla propria forma. Involucri dal contenuto eterogeneo, che non si è mai trasformato in amalgama: agglomerati di gruppi in esplicita competizione interna. E’ significativo che siano molte, in un campo e nell’altro, le vittime del “fuoco amico”, dal ministro Brunetta (disertato dai leghisti) alla governatrice Bresso (affondata più dai dissidi interni che dai grillini valsusini)… Ma è ancor più rilevante il fatto che è proprio da Pdl e Pd, in forma bipartisan e simmetrica, che si sono riversati al di fuori del sistema politico i quasi tre milioni di voti che mancano all’appello: cosa ancora in qualche misura comprensibile per il Pdl, rispetto al quale almeno una parte di elettorato moderato può esser stato disgustato dagli eccessi del leader. Ma assai meno scontata per il Pd, che avrebbe dovuto capitalizzare l’impresentabilità del suo avversario, facendo il pieno al di là dei suoi meriti.
Se persino in questa circostanza il suo stesso elettorato l’ha, almeno in parte, abbandonato, deve essere stato davvero elevato il suo potenziale “repellente”. L’effetto-delusione che esso ha alimentato: il senso di distacco, di auto-referenzialità, in qualche misura di arroganza e insieme di separatezza del suo ceto politico. La sua distanza dai territori e dalla gente che li abita. La sua incapacità di parlare un linguaggio condiviso, e di disegnare un orizzonte di valori credibili e comuni. Bersani che in diretta TV rivendica il merito di aver «invertito la tendenza», alludendo a una sorta di vittoria, mentre tutto il suo popolo, quello che l’ha votato, è piegato in due dalla sofferenza e dalla consapevolezza della sconfitta storica, è l’emblema dell’abisso scavato tra il ceto politico e il suo popolo. Dell’incapacità di parlare la stessa lingua e di condividere lo stesso universo di senso. Ci dice di una dirigenza di partito capace solo di guardare all’interno (e di guardarsi alle spalle), preoccupata più di parare i colpi degli avversari nel partito che di vedere ciò che avviene nel mondo esterno, simbolo vivente di un esodo, drammatico, della politica di sinistra dai luoghi della vita quotidiana.
Su questo terreno istituzionalmente liquefatto restano solo due corpi: il corpo solitario del Capo, sopravvissuto miracolosamente a se stesso e al “giudizio di dio” da lui stesso invocato; e il corpaccione collettivo della Lega, impastato di sangue e di suolo. Carisma da satrapo, e milizie territoriali da rude razza padana. Detteranno i modi e i tempi della transizione. E non sarà una passeggiata. Il triennio che ci aspetta non sarà segnato dalla lenta agonia del berlusconismo, nel quadro di una pacifica ri-normalizzazione. E men che meno – è quasi un’ovvietà – dal civile confronto sulle riforme. Tanto vale dirselo.


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